La
questione della lingua
La
lingua
letteraria
dell’epoca manzoniana era in qualche modo derivata dal modello del
volgare fiorentino utilizzato nella Firenze del Trecento da Dante,
Petrarca e Boccaccio.
Se nei secoli del medioevo
questo linguaggio si era rivelato uno strumento elegante e ricco di
espressivita’, nell’Ottocento era divenuto ormai una lingua
vecchia di cinquecento anni, aulica, compresa solo da una piccola
elite di lettori estremamente colti, lingua che anche i letterati
dovevano studiare come fosse una lingua straniera, inefficace ad
esprimere il pensiero e la realta’ vissuta dalle persone di quel
tempo.
Manzoni stesso, educato in
ottimi collegi e cresciuto tra la Lombardia e la Francia, comunicava
anche per iscritto o attraverso la lingua francese o il dialetto
meneghino.
Inoltre per quanto riguarda la
lingua parlata
la penisola italiana non disponeva di una lingua “nazionale”, ma
di molteplici “dialetti”, parlati nelle diverse regioni.
Manzoni era dunque uno
scrittore che avvertiva con disagio l’anomalia della
situazione italiana: mentre i Francesi per scrivere usavano la stessa
lingua con cui parlavano, gli “italiani” che provenivano da
diverse regioni dovevano utilizzare il vocabolario della Crusca per
intendersi tra loro.
Ricordiamo che il periodo
storico in cui Manzoni vive è quello del Risorgimento, durante il
quale si forma lo stato unitario d’Italia, progetto politico
condiviso anche dal nostro scrittore. Quindi egli aveva un duplice
progetto: 1) superare il distacco tra lingua scritta e parlata 2)
trovare una lingua comunitaria, popolare e nazionale, da utilizzare
in scritti rivolti ad un pubblico piu’ ampio.
In
una lettera all’amico Claude Fauriel Manzoni scriveva sulla
questione della lingua : “ Per
nostra sventura lo stato dell’Italia divisa in frammenti, la
pigrizia e l’ignoranza quasi generale hanno posto tanta distanza
tra la lingua parlata e la scritta, che questa puo’ dirsi quasi
lingua morta. Percio’ gli scrittori (….) non possono produrre
l’effetto che si propongono, cioe’ erudire la moltitudine e di
rendere le cose un po’ piu’ come dovrebbero essere”.
Vi
faccio notare che per Manzoni cresciuto sotto lo stimolo delle idee
illuministe, l’Arte non deve solo essere bella, ma avere anche una
efficacia morale e sociale.
Fin
dai primi decenni dell’Ottocento (1821-23) dunque Manzoni progetto’
di raccontare una vicenda in cui fossero protagonisti non solo
“principi e potentati” ma anche “genti meccaniche e di picciol
affare” e che potesse essere agevolmente compresa da un larghissimo
pubblico di lettori. Da quel momento il problema della lingua divenne
centrale nella stesura del romanzo e Manzoni fu sempre consapevole
dell’estrema difficolta’ dell’impresa.
A
partire da queste considerazioni possiamo comprendere come la stesura
dei Promessi Sposi si sia caratterizzata anche come una operazione di
sperimentazione linguistica
importante per la storia della nostra lingua: potremmo chiamarla una
lunga marcia verso il toscano.
Le
fasi di questo processo linguistico si possono circoscrivere a tre
momenti:
1°
stesura del “Fermo e Lucia” (1821 -23) : la lingua utilizzata in
questa edizione venne condannata impietosamente dallo stesso Manzoni
che la defini’ “un composto
indigesto di frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’
francesi e un po’ anche latine…”
Fallito
il tentaivo di creare dal nulla una lingua a tavolino, artificiale,
Manzoni si dedico’ ad un vero e proprio rifacimento del primo
romanzo.
2°
l’edizione del 1827 – chiamata dai critici la “ventisettana”
- linguisticamente ha la caratteristica di sostituire molti vocaboli
con quelli della lingua toscana, attraverso la consultazione di
vocabolari: quello toscano-milanese del Cherubini, i sei volumi del
vocabolario della Crusca e attraverso la lettura di autori
classici in toscano, come novellieri, cronisti, comici.
Servirsi
di libri e vocabolari era tuttavia una operazione che presentava dei
forti limiti per chi, come Manzoni aveva intenzione di avvicinare la
lingua scritta con quella parlata, rendendola piu’ accessibile ad
un pubblico piu’ vasto.
Cosi’
dall’agosto del 1827 Manzoni soggiorno’ per alcuni mesi in
Toscana, per conoscere ed apprendere una lingua toscana d’uso piu’
quotidiano, una lingua parlata da persone toscane di medio livello
culturale e sociale. Questo soggiorno verra’ chiamato da Manzoni
“la risciacquatura dei panni in Arno”
3°
l’edizione del 1840, pubblicata in 108 dispense. La struttura
del nuovo romanzo non presenta forti cambiamenti rispetto a quella
del 1827: uguali rimangono il titolo, i nomi dei personaggi, il
numero e il contenuto dei 38 capitoli. La famosa “risciacquatura”
consistette in un adeguamento della lingua del romanzo all’uso del
parlato medio toscano.
Questo
significa che attraverso la permanenza a Firenze e una continua
interlocuzione con toscani e toscane ( “si
dice ancora questo o come si dice ora ? e come si direbbe quest’altro
che noi esprimiamo cosi’ nel nostro dialetto?” )
Manzoni pote’ sostituire molti vocaboli di derivazione troppo
dialettale e vocaboli troppo arcaici e letterari – che non avevano
altra esistenza fuorche’ nei libri – con termini
appartenenti alla lingua parlata.
In
questo modo Manzoni, gia’ negli anni 40’ propose agli abitanti
della penisola il suo modello di lingua nazionale: il fiorentino
moderno.
Il
suo lavoro rimane una pietra miliare nella storia della nostra
lingua, raggiungendo lo scopo di avvicinare lo scritto al
parlato.
La
proposta di eleggere il fiorentino a lingua nazionale comune risulto’
invece astratta: l’unificazione di una lingua non puo’ avvenire
attraverso l’imposizione di un modello, ma attraverso un processo
di comunicazione tra le diverse regioni e gli strati sociali, che in
Italia venne reso possibile solo a partire dall’unificazione
politica.
Linguisticamente
i PS si rivelano un’opera con una prosa molto realistica e viva, in
cui frequente è il ricorso al discorso diretto. Spesso vi compaiono
vocaboli ritenuti impoetici ( CASALE, COCUZZOLO, GIOGAIA,CIOTOLONI)
che la tradizione letteraria precedente non utilizzava.
Nelle
edizioni precedenti inoltre tutti i personaggi umili avevano una
parlata fortemente caratterizzata in senso dialettale, mentre
nell’edizione del 1840 c’è omologazione linguistica. Se il
linguaggio di ciascun personaggio si differenzia è perche’ marca
la sua psicologia: il linguaggio è arrogante in Don Rodrigo, ambiguo
in Don Abbondio, irruento in Renzo, moderato in Lucia.
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